BRUCE OLLIS

Bruce odiava Martin ma era quello che lo conosceva meglio. Suo padre era il giardiniere dei signori Jamison e i due ragazzi, per forza di cose, erano cresciuti insieme. Bruce aveva visto ogni sorta di droga entrare in quella casa ai festini del playmaker, ogni ragazza uscire ubriaca dopo la mezzanotte, aveva assistito a tutte le bravate di quel viziato senza mai aprir bocca. Forse per questo era finito nella cerchia di amici di Martin.

 

Bruce non era cattivo, ma era palese fosse invidioso dell'agiatezza in cui viveva il mio vicino di casa mentre lui era costretto ad occupare una piccola casa in un angolo del giardino, quasi come fosse un rastrello o una zappa, lui che, in verità, aveva molto più talento di Martin.

 

Entrambi giocavano nella squadra della scuola, ma Bruce, che era alto un metro e ottanta a soli sedici anni, era un cestista nato: il re dei rimbalzi. Ciò che purtroppo accadeva ad ogni partita era che lui ribaltasse il risultato ma che, per qualche motivo, fosse sempre più importante il passaggio di Martin, la creazione del suo gioco, il suo stop su qualche avversario. Bel canestro Bruce, bravo, ma senza quel passaggio di Martin...

 

La sua corporatura muscolosa e slanciata, purtroppo, non lo rendeva un ragazzo appetibile e nessuno lo aveva mai visto in compagnia di una cheerleader o di una ragazza fuori dalla scuola. Il viso puntellato di acne, che ti spingeva a chiederti quale disegno potesse uscire se avessi unito i puntini, solo per ricordarti che in fin dei conti, con questo pensiero, eri crudele tanto quanto il suo amico. I capelli rasati, stile marine e gli occhi color ghiaccio, da accapponare la pelle. Chiunque, a scuola, avesse parlato con Stephen King avrebbe detto: "Hey sai conosco un ragazzo che potrebbe essere il prossimo serial killer di un tuo romanzo!".

 

Ma a scuola giudicavano così anche me.

 

Conobbi Bruce, per caso, durante una corsa mattutina al mio rientro dalla clinica, quando avevo adottato uno stile di vita sano per favorire l'allontanamento dello stress. Fino a quel momento lo avevo visto nei corridoi e nel cortile di Martin, ma non gli avevo mai rivolto la parola.

 

Stavo correndo, con l'orologio al polso che contava i miei passi e i chilometri macinati, monitorando accuratamente la frequenza cardiaca. Mio padre lo aveva comprato proprio perché le istruzioni millantavano una fantomatica segnalazione di eventuale fibrillazione atriale o di aritmia, quando me lo aveva consegnato avevo commentato:

 

«Carino, ma la prossima volta lo vorrei che facesse il caffè».

 

Quel maledetto marchingegno, che spesso mi faceva vibrare il polso ad orari improponibili facendo comparire sul display Alzati in piedi! Fai movimento, stava scandendo il ritmo della mia giornata mentre affondavo pesantemente i piedi nel fango e varcavo la soglia del mio quarto chilometro a corsa veloce. Il terreno scivolava sotto ai piedi e mi trascinava verso il basso costringendomi a rallentare e a faticare il doppio.

 

«Qui non va bene allenarsi, ti consiglio la pista a bordo strada che va verso il centro» Bruce se ne stava in piedi con il cellulare tra le mani e le cuffie penzoloni sulle spalle.

 

«Me ne sono accorta».

 

Ero diffidente: gli amichetti di Martin mi prendevano sempre in giro.

 

«Tu sei Amber, vero?»

 

Alzai gli occhi al cielo fermandomi.

 

«Sì, la piromane pazza della palestra»

 

«Io sono Bruce»

 

So perfettamente chi sei, razza di idiota gonfiato.

 

«Non mi interessa la questione della palestra, Martin è un esaltato».

 

La scuola con più pugnalatori alle spalle di tutto il pianeta terra! Non sapevo come prendere quella affermazione e decisi di ignorarla del tutto, facendo finta di allacciarmi le scarpe per prendere tempo e vedere se aveva qualcos'altro da dirmi.

 

«Anche mia madre è stata in quella clinica».

 

Lo guardai in faccia, forse per la prima volta da vicino, bypassando i brufoli e quel sorriso sghembo che gli aveva aperto il viso, puntando dritto agli occhi.

 

«Lei però non ne è uscita, era schizofrenica e ha deciso di buttarsi dall'ultimo piano. Io e papà crediamo che sia stato l'unico momento di lucidità della sua vita» ammise infilandosi il telefono in tasca, come se stesse confessando di non aver fatto i compiti.

 

Non sapevo cosa dire e mi ritrovai a pensare che non avevo mai visto una donna insieme al padre di Bruce e che, in effetti, non sapevo nulla di lui.

 

«Tuo papà lavora per i Jamison» mi ritrovai a dire stupidamente.

 

«Bisogna pur vivere e il papà di Martin non è scemo come il figlio, è una persona con la testa sulle spalle, sempre pronta ad aiutare gli amici. Lui e il mio andavano insieme al college».

 

«Perché parli con me?» non mi andava di girare intorno all'argomento e Bruce mi sembrava sincero.

 

Si strinse nelle spalle:

 

«Non credo a tutto quello che racconta lui» l'allusione al suo amico non era per niente velata.

 

Non ci parlammo più, il giorno dopo a scuola non ci salutammo nemmeno, sembrava che ci ignorassimo a vicenda e non ebbi più nulla a che fare con lui.

 

Fino a due giorni prima della festa.

 

Quel pallone gonfiato sarebbe rimasto a casa da solo per il week end e aveva invitato metà scuola, tranne gli sfigati, ad una festa che prometteva essere piena di sorprese e trasgressioni. Quello che non sapeva era che sarebbe stata rovinata da Bruce Ollis.

 

Li trovai parlottare in maniera agitata nel cortile dietro alla scuola, in disparte, e senza farmi notare mi avvicinai passando dietro ai cespugli.

 

«Bruce basta! Stai passando il limite»

 

«Eravamo d'accordo, avevamo un patto» lo ammonì.

 

«Abbiamo un patto da quasi due anni, ora basta. Non ho intenzione di cedere ad altri ricatti e nemmeno di farti del male. Fatti aiutare».

 

Mi accucciai dietro ad un arbusto, completamente in ombra e cercai di respirare senza far rumore.

 

Bruce armeggiò con qualcosa sotto alla giacca.

 

«Martin, o rispetti il patto, o io...»

 

La sua voce tremava, sembrava preda di uno stato isterico e non riusciva a controllare nemmeno gli arti che si spostavano con movimenti scomposti.

 

«Cosa pensi di fare? Non mi fai paura. La risposta è no».

 

Bruce fu rapido e centrò il volto del playmaker con un destro deciso sullo zigomo. Lo vidi piegarsi sotto al colpo e tenersi il viso tra le mani mentre gli veniva assestato un calcio in pancia. Cadde a terra e l'amico gli fu sopra in poco tempo, tenendogli ferme le mani. Martin, tuttavia, era più forte e, con una ginocchiata sul fianco, riuscì a ribaltare la situazione ricambiando con enfasi.

 

Si rialzarono in piedi, tremanti, uno con un livido sullo zigomo e l'altro con il sangue che usciva dal labbro e la mano che armeggiava ancora sotto alla giacca. Estrasse un coltello e dovetti tapparmi la bocca per trattenere il verso di sorpresa che stava uscendo senza preavviso.

 

«Che cazzo fai con quello? Sei pazzo?!» Martin aveva paura.

 

«O me le dai o ti ammazzo. Ti giuro che ti faccio fuori. Dammi quelle pastiglie!»

 

Si azzuffarono ancora, finendo a terra e non lasciandomi comprendere chi stesse avendo la meglio. Poi sentii Bruce emettere un verso strozzato e vidi Martin alzarsi, gettare lontano il coltello e assestagli un calcio nella pancia. Poi gli sputò addosso.

 

«Sei solo un tossico di merda, stammi lontano. Sei pazzo come tua madre!»

 

Non li vidi più insieme, l'amicizia era definitivamente rotta e Bruce Ollis venne escluso anche dal resto dei componenti della squadra di basket. In pochi giorni la sua vita era cambiata, era approdato sull'isola dei perdenti e non riusciva più a riprendere il mare. Si presentò a scuola il giorno dopo con il viso scavato, i vestiti sporchi e diversi ematomi ma nessuno gli chiese cosa fosse successo. Due giorni dopo, il sabato della festa, Martin scomparve nel nulla.