Il giorno dopo la scuola era sotto shock, o almeno lo erano gli adulti. Come era possibile che in un intero edificio ci fossero a malapena venti persone dispiaciute per la morte di un ragazzo?

 

Amber camminava nei corridoi, spostandosi da un'aula all'altra per seguire le lezioni e cercava di tenere le orecchie ben tese per carpire ogni frase che contenesse il nome della vittima. Ovviamente non si parlava d'altro e tutti erano pronti a scommettere su chi fosse l'assassino, un po' meno, però, a collaborare alle indagini.

 

La polizia venne a scuola e il preside dovette spiegare agli studenti che molti sarebbero stati interrogati, previo consenso dei genitori, per cercare di ricostruire le ultime ore di vita di Martin.

 

Per qualche strano motivo nessuno sembrava accettare di buon grado di fornire informazioni.

 

Chiamarono anche Amber, il martedì, tra l'ora di fisica e quella di letteratura.

 

«Amber Costa, può seguirmi in ufficio?» il preside in persona con un agente, quale onore!

 

Si sistemò meglio la borsa sulle spalle e li seguì fino ad una stanza che recava una targhetta: preside Adam Miller.

 

Al suo interno c'erano l'ispettore Michael Davis e il padre della ragazza.

 

«Amber accomodati, vorremmo chiederti alcune cose» esordì il preside.

 

«Va bene, ma non frequentavo Martin, quindi non posso aiutarvi» mise le mani avanti.

 

«Che strano, a quanto pare nessuno in questa scuola lo frequentava» ironizzò l'ispettore, poi proseguì: «Conoscevi Martin Jamison?»

 

«Era il mio vicino di casa, quindi lo conoscevo da quando ero piccola».

 

«E non vi frequentavate? Non facevate nemmeno la strada per scuola insieme?»

 

«Martin andava a lezione in auto, io con il bus. Quindi no, non facevamo nemmeno la strada insieme».

 

Non sapeva perché si stesse comportando in quel modo, forse perché aveva sentito dire che gli interrogatori precedenti erano stati terrificanti e che alcuni studenti erano usciti dalla stanza in lacrime.

 

«Quindi vedevi Martin ogni giorno, ma non parlavate e non vi incrociavate, giusto?»

 

«Esatto».

 

«Amber, chi frequenti nel tempo libero? Con chi esci?»

 

«Cosa c'entra la mia vita privata con Martin Jamison?» sbottò lei.

 

 Il padre le fece cenno di rispondere.

 

«Non esco molto, preferisco stare in casa e fare altro».

 

«Ad esempio?» l'ispettore si sistemò meglio sulla sedia.

 

Amber decise di non rispondere.

 

«Conosci Nora Morson?»

 

Purtroppo sì, avrebbe voluto rispondere.

 

«Sì» disse invece.

 

«Sostiene che nel tempo libero non frequenti nessuno perché Martin Jamison ha raccontato ai tuoi compagni che assumi psicofarmaci».

 

 Amber sbiancò. Non provò nemmeno a protestare né a chiedere come potesse sapere quelle cose. Semplicemente la sua pelle, di solito olivastra, divenne pallida.

 

«Secondo Nora lo scorso inverno avresti messo le mani al collo di Martin dicendo "Se non la smetti ti ammazzo, mi hai rovinato la vita". Ti risulta?» comparve un ghigno beffardo.

 

 Il padre la precedette:

 

«Credevo fosse una chiacchierata informale, a me sembra un interrogatorio».

 

«Fa differenza?» domandò l'altro, stizzito per l'interruzione.

 

«Ne fa molta. Se fosse un interrogatorio vorrei chiamare un avvocato, prima».

 

Scese il silenzio e Amber si strinse di più nella felpa avvertendo un clima troppo freddo. Sentiva le mani ghiacciate premute sulle cosce e non sapeva come scaldarsi. Aveva anche iniziato un movimento,per fortuna impercettibile, sulla sedia, quasi un rituale per assimilare l'agitazione e questo non andava bene. Voleva andare via.

 

«Suvvia signori, penso che sia ovvio che Amber possa anche non rispondere...» tentò il preside.

 

«Non ricordo se ho detto quelle parole, ma sicuramente non avrei mai ucciso Martin. Sono cambiate molte cose da quel giorno».

 

«Sì, ad esempio è morto un ragazzo».