«Amber! Amber aspetta!» papà mi rincorreva per il vialetto chiamandomi a gran voce.

 

Entrai in casa senza fermarmi e solo quando la porta fu chiusa decisi di ascoltare quello che aveva da dire.

 

«Amber hai davvero detto quelle cose a Martin?»

 

«Non lo so! Non mi ricordo, papà. Sono successe tante cose in quel periodo e non riesco a ricordare».

 

Mia madre piombò lì, attirata dalle urla, sembrava aver già capito tutto.

 

«Ma ti rendi conto che ora hanno qualcosa a cui aggrapparsi?» sentenziò mio padre.

 

«Papà, ogni sera da un anno e mezzo vieni a darmi la buona notte alle nove in punto. Non sono mai andata ad una festa, non sono mai uscita dopo cena. Non vado al cinema né altrove, come potrei aver ucciso Martin quella notte?»

 

Mamma si portò le mani alla bocca:

 

«Niña cosa hai fatto?»

 

Per tutta risposta, lui, le fece un cenno stizzito per zittirla.

 

«Ma loro non lo sanno, non hai prove che tu non eri lì! E la polizia non è nemmeno certa che sia morto di notte!»

 

A Amber non avevo pensato. Chi aveva detto che il ragazzo fosse stato ucciso di notte? Magari era stato trascinato nel bosco in un secondo momento, per l'occultamento del cadavere. Ma a questo punto perché contattare la polizia e avvertirli della presenza di un corpo nel bosco?

 

«Io non c'entro niente con questa storia. Non parlavo nemmeno con Martin».

 

«Perché non ci hai detto che non avevi più amici?» cambiò discorso papà.

 

«È successo dopo l'episodio in palestra, poi sono stata alla clinica e quando sono tornata era tabula rasa e nessuno voleva parlare con la "pazza che aveva cercato di dare fuoco ad un suo compagno scambiandolo per uno stupratore". Quando sono tornata Martin aveva provveduto a raccontare quanto fossi matta già da bambina e che prendevo delle pastiglie per non rischiare di ammazzare anche voi due. Tutti erano spaventati da me».

 

«Comprensibile, ma poi hanno capito che Martin ha raccontato una bugia, no?» si intromise mamma.

 

«No. Martin era l'idolo di tutti e la gente si divertiva a ignorarmi».

 

«Ci sarà una spiegazione...» provò mio padre.

 

«Senti, lo so che sei amico del padre di Martin, ma faresti bene ad accettare il fatto che suo figlio non fosse un santo, anzi. Per quanto ne so sono pochi quelli che lo piangono a scuola e tanti quelli che hanno tirato un sospiro di sollievo. Se la polizia sospetta di me dovrà sospettare anche di altre cento persone».

 

Più tardi, a letto, fissavo la pioggia che aveva cominciato a battere sui vetri delle finestre.

 

Tic tic.

 

Toc Toc. Mamma entrò in camera, quasi in punta di piedi, e si sedette sul letto. Bastò che i nostri occhi si incrociassero per capire tutto.

 

«Come stai?» chiese.

 

«Bene, mamma» stavo giocherellando con un cordino che avevo trovato nella tasca della giacca.

 

«E le medicine...?»

 

«Le prendo, tranquilla. Non ho allucinazioni ed è tutto ok».

 

«Papà dice che se sai qualcosa lo devi dire alla polizia o non la smetteranno di tenerti d'occhio».

 

«Papà esagera sempre».

 

Ma sapevo che non era vero. Una macchina con degli agenti era appostata sotto casa mia da quando ero tornata da scuola.

 

Quando mamma uscì dalla camera, tirai fuori da sotto il cuscino un quaderno che avevo nascosto in fretta e furia. Al centro una domanda: chi voleva morto Martin Jamison?

 

Tutto intorno una sfilza di nomi che mi erano venuti in mente, gente che aveva discusso con il ragazzo e che poteva aver voluto una vendetta. Mi chiesi quanti altri, che non conoscevo, fossero da inserire e come avrei potuto trovarli. "E se non spunta nessun altro? Se quelli che sono stati interrogati prima di me fossero risultati puliti?".

 

Ma ero davvero a casa la sera in cui era morto Martin Jamison? O la terapia mi stava causando dei buchi neri nella memoria?