LIZZY ORTONS (un capitolo da Manchester 1970)

Avevo deciso che non sarei andata al college, dovevo solo dirlo a mia madre e non sarebbe stato facile. A me piaceva studiare, ma non era quello che volevo fare nella vita; io volevo cantare.

 

Da qualche tempo suonavo con la mia amica Becky Miller nel mio garage, rigorosamente dopo aver finito i compiti e avevo scoperto che mi piaceva da morire. Becky e io avevamo sedici anni solo che lei suonava il pianoforte dannatamente bene e io non sapevo nemmeno suonare il campanello di casa. Un po’ la invidiavo e le chiedevo continuamente di insegnarmi ma lei era categorica:

 

-         << Suonare è un conto, insegnare è un casino. E poi tu hai una bellissima voce>>.

 

Così lei suonava e io le andavo dietro con qualche strofa.

 

La vita non era stata gentile con la mia famiglia. Papà lavorava alla discarica fuori paese e durante una manovra, secondo il datore di lavoro azzardata, gli era rotolato addosso un container spappolandogli la testa. Io avevo già dieci anni e la mamma era incinta di Albert. Furono giorni difficili, ma in un modo o nell’altro passarono e ci tirammo su. Cinque mesi dopo mamma perse Albert.

 

Io ero a scuola e venne a prendermi zio Francis per portarmi di corsa all’ospedale in mezzo a tutta la confusione del momento. Non riuscivo a capire cosa potesse essere successo e perché ci fosse tutto quel movimento in sala d’attesa: medici che correvano, chiamavano altri chirurghi per rinforzare l’equipe, infermiere che facevano le corse con i carrelli per stare dietro a tutto, parenti che andavano avanti e indietro e mi guardavano, con compassione.

 

Non ricordo quanto restammo, io e lo zio, seduti vicini, quasi schiacciati, su quelle dannate sedie di plastica, ma quando uscì un chirurgo saltammo entrambi in piedi come se ci fossimo seduti su delle molle.

 

-          << Potrei parlarle un attimo da solo?>>.

 

Avevo già capito tutto, senza bisogno di quell’inutile dimostrazione di tatto.

 

La mamma era caduta dalle scale mentre cercava di fare spazio nella nuova camera di Albert, stringeva tra le mani uno scatolone di libri vecchi e non aveva visto il primo gradino e di conseguenza nemmeno quello dopo e quello dopo ancora.

 

Era caduta tra un urlo, una botta e un altro urlo e poi aveva visto tanto sangue. I vicini avevano sentito le richieste di aiuto, strazianti, che lei lanciava dal pavimento e avevano forzato la porta di ingresso, salvandole la vita.

 

Tutto il sangue che la circondava era semplicemente Albert, che salutava tutti per raggiungere papà in un posto migliore. Nessuno sapeva che a breve li avremmo visti tutti.

 

Ormai erano passati anni e non pensavo più a papà e ad Albert, andavo a trovarli al cimitero insieme alla mamma, ma non stavamo più davanti alla tv, spenta, a piangere una accanto all’altra.

 

Zio Francis per me è stato come un secondo papà, ma anche per lui il destino avrebbe riservato brutte sorprese. Stava tornando dal bosco trascinando un carretto carico di legna con cui avrebbe scaldato casa, ormai viveva con noi dopo tutte le disavventure della mamma. Me lo immagino: salopette di jeans, camicia di flanella, scarponi da lavoro, una sigaretta in bocca mentre fischietta e tira la legna col suo carretto. Se chiudo gli occhi lo vedo camminare e poi sparire, inghiottito da quel maledetto tombino aperto che lui non aveva visto. E cosi se ne era andato anche lui, con l’osso del collo rotto, a raggiungere gli altri uomini della famiglia nel triste destino che aleggiava intorno al cognome degli Ortons.

 

Pensai che avrei potuto parlarne a cena, del canto intendo, magari se avessi preparato qualcosa da mangiare mamma sarebbe stata più accondiscendente. O magari mi avrebbe mandata al diavolo comunque.

 

Cucinai un pasticcio di patate, ultimamente mangiavamo soltanto una portata e le patate erano molto economiche, se le avessi bruciate non sarebbe stata una grande perdita. Invece andò tutto bene e mi sedetti in soggiorno ad aspettarla, sperando fosse abbastanza sobria per comprendere le mie parole.

 

Non capivo come mai la signora Lullaby, la proprietaria del negozio di alimentari, non l’avesse licenziata tempo fa, quando l’aveva scoperta nel retro a bere il whisky che avrebbe invece dovuto vendere. Penso che lo avesse fatto per pena. Così come io facevo pena agli insegnanti: la povera Lizzy, orfana, che fa da madre alla propria madre. La povera Lizzy che non aveva niente.

 

Mamma non era cattiva, tranne quando beveva, allora si trasformava, tornava a casa e spesso mi picchiava finché le lacrime non rigavano le guance di entrambe; allora smetteva e mi chiedeva scusa.

 

Quella sera aveva bevuto, e tanto, pensavo, mentre la sentivo grattare sulla serratura come un ubriaco che non riesce ad inserire la chiave. Ma poi sentii anche qualcos’altro, una risata strana, un raschiare su tutto il legno della porta. Non so perché avvertii dei brividi lungo il collo, che mamma avesse portato un uomo a casa? E se così fosse io come mi sarei comportata?

 

Non era un uomo, non era la mamma, non era qualcuno che conoscevo: era un mostro.

 

Quello che accadde quella notte, in casa, fu un mistero per tutta la comunità di Manchester. Mamma fu rinvenuta in soggiorno, con la bocca tagliuzzata come a creare un sorriso malefico, con il telecomando in mano sintonizzata sul canale delle notizie. Io non fui mai ritrovata. Accanto al corpo di mia madre trovarono solo un mio braccio e la polizia intuì la mia morte. Era la maledetta sfiga degli Ortons che forse finiva per sempre.

 

L’ironia fu che non ci riunimmo mai. Quando aprii gli occhi ero nel bosco, lo intuii dagli alberi, dai rami congelati che mi sovrastavano e dal silenzio quasi assordante. Sentivo qualcosa di strano alla mia destra, così tentai di muovere il braccio e fu allora che scoprii di non averlo più. L’assassino aveva diviso me e mia madre per sempre e nessuno mi avrebbe mai più trovata. Non ricordo assolutamente niente di come andarono le cose quella sera, non ricordo come entrò in casa, non ricordo se mia madre era già con lui o se la uccise dopo. Tutte queste informazioni me le diede Mason nel luogo dove ci incontrammo.

 

Capitava spesso, chiudevo gli occhi e mi trovavo in questo bosco pieno di alberi in cui mi sentivo davvero protetta. C’erano tante persone che non conoscevo, alcune di altre origini e che parlavano altre lingue e raccontavano la loro storia. A me veniva da piangere perché la mia era la più triste e non sapevo nemmeno come fossi finita lì.

 

-         << Lo so io>> Mason si alzò in piedi facendo cadere un album da disegno.

 

-         << Ti conosco>>.

 

-         << Andavamo a scuola insieme ma non nella stessa classe. Tu sei morta prima di me>>.

 

Ero scioccata, mi ricordavo di Mason e non potevo credere che fosse morto anche lui.

 

-          <<Chi…>>

 

-         << Il killer dei bambini. Ti ha uccisa insieme a tua madre ma di te è stato ritrovato solo un braccio. La polizia diceva che tua mamma non riusciva a sopportare il peso della vita e che ti aveva fatta fuori, ma in città nessuno ci credeva. Era evidente che non sapessero che pesci prendere>>.

 

Mi raccontò tutto quello che era trapelato di quella notte, ben poco in effetti, e poi mi spiegò cosa era successo a lui. E fu così che incontrai Dustin Foley e qualche altro bambino che non conoscevo ma che era scomparso durante la fine del 1970 e l’inizio del 1971 e fu un po’ come trovare una famiglia: una famiglia senza famiglia. Mi guardai intorno, molti stavano ascoltando la nostra storia, compreso un tizio senza faccia, completamente scorticata e asportata che ci guardava senza dire nulla.

 

-          <<E ora che si fa?>>.

 

-         << Siamo destinati a stare qui, fino a quando qualcuno non ci troverà e allora, forse, potremo essere liberi. O almeno penso così>>.

 

Le spiegazioni erano sufficienti a farmi capire che forse la sfortuna degli Ortons non mi aveva mai abbandonata davvero.

 

-          <<Perché tu sei morto dopo e sei qui da più tempo di me?>>.

 

-         << Immagino che alcune cose, sulla morte, non ci verranno mai svelate e non potremo mai comprenderle. Forse io attendevo da tempo il momento di andarmene, forse non ho mai voluto vivere veramente e quindi mi sono svegliato subito. Tu, che invece hai avuto la morte come vicina di casa per tutta la vita, non volevi cedere>>.

 

Aveva senso. Quel ragazzino che tutti sfottevano perché troppo silenzioso e pessimista stava parlando come il migliore dei saggi.

 

-         << Quindi staremo qui per sempre?>>.

 

Mi veniva da piangere, avevo la possibilità di rivedere la mamma, il papà, lo zio Francis e di conoscere Albert, ma ero bloccata in quel cavolo di mondo senza vita in compagnia di tutti gli scomparsi mai ritrovati del mondo.

 

-         << Non penso che ci troveranno mai>>.

 

-         << Io non ne sarei così sicuro>>.

 

Un ragazzo di pelle scura si era avvicinato, portava dei vestiti molto larghi, probabilmente veniva da un’epoca diversa da quella mia e di Mason.

 

-         << Che vorresti dire?>>

 

-         << Non so come sia possibile, ma quello che è capitato a voi sta ricominciando. E sono sicuro che, se si giocano tutte le carte, il killer commetterà qualche errore>>.

 

Mason sembrava scettico, ma comunque interessato.

 

-          <<Chi cazzo sei tu?>>.

 

-         << Victor. Victor Olwis>>.

 

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